Sono in molti ormai a ritenere che Beppe Fenoglio sia stato uno dei più autentici e originali narratori della sua generazione, anche se gran parte della sua produzione è stata pubblicata postuma per la prematura morte a soli quarant’anni. “La malora”, del 1954, è uno dei pochi racconti pubblicati in vita, un racconto lungo o romanzo breve che dir si voglia, nel quale Fenoglio abbandona le storie partigiane, sulle quali ritornerà ancora con intenso lavorìo sul piano umano e linguistico, e racconta una dura storia contadina che lo immette, direi quasi involontariamente, nel solco di Verga e del verismo italiano.
La malora: cioè la sventura, la disgrazia, la miseria estrema che perseguitano il giovane Agostino. La sua famiglia è già povera ma un debito costringe il padre a mandarlo a servire presso un padrone contadino a qualche collina di distanza, venduto quasi, a peso. Nella narrazione di questi tre anni, intercalata da ricordi, si snoda il racconto, che è a suo modo una storia di formazione. Agostino conosce la fatica che abbrutisce e la disperazione, il tenero affetto per il fratello Emilio che studia da prete, e un delicato innamoramento stroncato bruscamente da una decisione puramente economica dei genitori della ragazza.
La storia è raccontata dallo stesso protagonista in una lingua creativa folta parole e locuzioni regionali e dialettali ma che ha una sua studiata organizzazione sintattica slegata, capace di abbuiare o far risplendere determinati punti della storia, di suscitare immedesimazione o riflessione. Fenoglio ha percorso vie nuove e ha rischiato grosso.
Vittorini, che pure ne intuì il talento e lo pubblicò ne “I gettoni”, inseriva nella nota editoriale di presentazione riferimenti ai “provinciali del naturalismo…con le storie che ci raccontavano, di ambienti e di condizioni, senza saper farne simbolo di storia universale”. Un diffuso manuale scolastico di letteratura italiana, nella scheda di analisi del testo di un brano di questo romanzo, osserva: “La degradazione, l’abbrutimento, la crudeltà, la violenza occupano tutto il quadro, senza residui positivi. Questa impressione di chiusura inesorabile è resa anche attraverso l’impostazione narrativa: il mondo contadino è visto dall’interno, con gli occhi del ragazzo che racconta, il quale è tanto “dentro” a quel mondo e a quella mentalità da non essere in grado di fornire alcuna prospettiva straniata di giudizio”.
Ma la scommessa sta proprio qui: Agostino è completamente immerso in quel mondo ma il solo fatto di raccontarlo in prima persona, di organizzarlo con la sua individualità unica lo rende diverso e il suo io narrativo ha subito come un’immersione nella risentita coscienza etica dell’autore. Questa commistione può apparire a tratti stridente ma lì c’è tutta la carica umana di Fenoglio, che non vede dall’alto la realtà, come un saggio di antropologia narrativa sulla società contadina, né tanto meno la distorce ma non vi si si appiattisce.
Il risultato è un Agostino che raccontando si alfabetizza, fa affluire perplessità e dubbi, a volte quasi è sul punto di pensare che si potrebbe agire diversamente, tenta di valutare uomini e cose, difende l’atto dei genitori perché la famiglia viene prima di tutto ma ne prende le distanze proprio sulla base del suo dolore e della sua umiliazione, distingue tra il fratello maggiore Stefano, egoista e confuso con il mondo che lo circonda, e il delicato e sensibile Emilio, al quale regala i suoi pochi soldi per comprargli da mangiare, tranne quando li spende, con malcelato senso di colpa, per comprare un profumo alla ragazza di cui è innamorato e con la quale fa teneri progetti. Al narratore impersonale verghiano, che rappresenta dall’interno una mentalità collettiva, Fenoglio sostituisce un narratore di quell’ambiente con tutti i limiti di quell’ambiente ma che esprime una personalità individuale, per giunta in formazione, e una sia pur confusa e inconsapevole insoddisfazione. È uno che magari non riuscirà a percorrerla ma comincia a concepire una strada diversa. Quando si decide di far andare Emilio in seminario per richiesta della maestra che considererebbe così estinto il debito e pagherebbe anche il mantenimento, Agostino osserva: “Il motivo può anche aver offeso nostro Signore ma però mio fratello Emilio a fare il prete andava bene, prima di tutto perché Emilio era buono, e quello che in chiesa ci stava più e meglio, e poi a scuola era il primo di tutto San Benedetto…”, poi dopo aggiunge anche che era “di poche forze” e in campagna poteva solo badare agli animali. I due livelli si intrecciano spesso ed è questa la sfida etica e narrativa del romanzo.
Ma pienamente rivelatrici sono le pagine finali: Stefano è andato a far da garzone presso certi parenti, la terra spetta quindi ad Agostino, che può finalmente emanciparsi dal suo padrone e ritornare a casa. Intanto al pallido e malaticcio Emilio è diagnosticata la tisi e non c’è che da riportarlo a morire a casa. Nel pieno della malora, come scrive, qualcosa è cambiato, Agostino sa di conoscere la terra, la ama, il fondo reca i segni dell’incuria per la negligenza del fratello, ma “bastava che tirassi per mio conto come avevo tirato sotto Tobia, e per poco che la fortuna m’accompagnasse e mia madre m’aiutasse col suo lavoro delle robiole, si poteva sperare di toglierci una buona volta da necessitare…”.
Pudicamente fa capolino la parola fortuna e un soffio di ruvida tenerezza, di pioggia che non sai ancora se feconda o devasta, investe il romanzo in cui uno senza parola la parola l’ha presa e ha tentato di dare un ordine al suo avaro e arido mondo.