Una voce. Una voce che si racconta, con i suoi tempi, le sue pause, le sue reticenze (“mi sono accorta che a volte mentiva e l’ho lasciato mentire”). Una voce che inizia dal momento della fragilità sulla strada della morte ed effonde considerazioni sulla vita, sul tempo, sul cibo, sul sonno e poi prende sempre più respiro e abbraccia tutta una vita: la giovinezza, la carriera, il potere; la ricerca del potere, il senso del potere e poi il suo raggiungimento; il governo, l’impero vasto e ordinato, l’amore per Antinoo, la ricerca del divino, lo scivolamento verso la morte “ad occhi aperti”.
La Yourcenar ha compiuto un’immane opera di lenta immedesimazione in un uomo e in un’epoca “con un piede nell’erudizione e l’altro nella magia”, come dice nei preziosi Carnets de Notes inseriti nelle edizioni successive in calce al romanzo. Continue riscritture e una meticolosa consultazione degli autori greci e latini, una catalogazione minuziosa dell’iconografia di tutti i personaggi hanno accompagnato la lenta stesura di un’opera che ha una sua fisionomia inconfondibile di genere.
È un romanzo storico questo? Si certo, se consideriamo l’epoca, ma non è un romanzo che voglia rievocare descrittivamente il passato, un uomo o una civiltà. La Yourcenar si appropria di una storia umana, la rivive dall’interno, si situa in quell’epoca, se ne impadronisce e ci restituisce una voce narrante di inconsueta ricchezza che spazia tra il tempo contingente in cui prese corpo e vita e gli eterni problemi e interrogativi della condizione umana. Del resto lei stessa ha affermato, sempre nei “Carnets de Notes”, che “ai tempi nostri, il romanzo storico o quello che per comodità si vuol chiamare così, non può essere che immerso in un tempo ritrovato: la presa di possesso di un mondo interiore”.
Classico nella forma, inquieto e mobilissimo nelle corde interiori che fa risuonare, questo romanzo resta un personalissimo capolavoro, frutto di una ventennale dedizione a una voce ascoltata anzitutto dentro se stessa e poi fatta sgorgare dall’interno della personalità di Adriano imperatore.
La forma classica nell’impianto e nello stile, modellato pazientemente sulle opere che Adriano doveva o poteva aver letto, l’apparente facilità, frutto di una consumata perizia letteraria, non ingannino e confondano il lettore: dentro c’è un fuoco che ha preso esca dal tormentato XX secolo che l’autrice ha vissuto da giovane proprio nei decenni cruciali dell’affermazione e della deflagrazione dei totalitarismi. Il potere, il rapporto tra uomo e potere, ora brutale ora idealizzato, ha in questo romanzo un posto centrale, anche se tra le innumerevoli suggestioni della personalità di Adriano, si fatica a identificarlo. “Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso prima di morire”.
L’Adriano che la Yourcenar delinea è l’uomo di governo che con pazienza e attenzione cerca di governare le sue passioni e nel contempo l’impero, riallacciando e ricostruendo un tessuto di vita civile, riorganizzando le leggi, disciplinando l’esercito, facendo costruire strade e acquedotti, teatri e biblioteche. C’è in lui una tenace ricerca di “un buon governo” che storni le energie dalla distruzione e dal protagonismo ambizioso e le faccia rifluire sulla intera comunità imperiale.
L’Adriano della Yourcenar lotta continuamente con se stesso per dare a questo potere desiderato e amato, anche in maniera torbida e dispotica, un senso: come un artista, vorrebbe imprimere la sua forma alla vita civile. “Volevo che l’immensa maestà della pace romana si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto… A questo ideale, in fin dei conti modesto, ci si avvicinerebbe abbastanza spesso se gli uomini vi applicassero una parte di quell’energia che van dissipando in opere stupide o feroci”.
Libro di culto, “di moda” (per quanto possa esserlo un libro così colto ed esclusivo), quindi inevitabilmente deformato dal suo stesso successo e bersaglio preferito di chi lo considera il simbolo di un classicismo elegante e accattivante ma in fondo frigido, questo romanzo va spogliato della sua aura mitica e valutato “solo” come un romanzo: nel rapporto tra i fini e i mezzi, tra le domande e le inquietudini che esprime e le strutture narrative nelle quali tali domande e inquietudini si incarnano, nella forza e nella consistenza del personaggio narrante, nel linguaggio che adotta.
Ridotto l’impatto in questi termini,” Memorie di Adriano” spero apparirà, come appare a me, un grande romanzo del Novecento europeo, segnato dalle vicende della prima metà di questo secolo, erede della tradizione umanistica che ha costituito l’Occidente e della sua secolare attitudine: rileggere incessantemente il passato “classico” per ritrovare, con un continuo e sottile gioco di proiezioni e trasposizioni, se stessi.