MATILDE SERAO, La Biblioteca di Repubblica, 2005

Il ventre di Napoli e altre storie

Appena una quarantina di anni fa questo libro sembrava a molti un residuo folkloristico del sentimentalismo meridionale un po’ “piagnone”. Da oltre un decennio si trova in diverse edizioni, tutte con adeguati saggi introduttivi. L’edizione che presento, dei classici dell’Ottocento di Repubblica, mostra come sia sentito, nel suo genere del giornalismo d’inchiesta, un classico della nostra letteratura.
Già memorabile l’esordio:
“Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il governo e il governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto; tutta questa retorichetta a base di golfo e colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, serve per quella parte del pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere L’ALTRA PARTE; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e dei delitti, il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo che sa tutto; quanta carne si consuma in un anno e quanto vino si beve in un giorno…. quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi siano;…per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a cosa sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la suprema intelligenza del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?”
Mi si perdoni la lunga citazione ma da questo vibrante esordio il taglio del testo, da autore verista di denuncia alla Zola, è subito chiaro: un’inchiesta che intende indagare, a scopo di denuncia, sugli aspetti della società napoletana che la rendono abnorme rispetto alla media delle grandi città italiane ed europee e configurano un sottosviluppo di cui l’epidemia di colera può essere solo una prevedibile conseguenza.
E dietro le case fatiscenti, la depressione economica, gli inferni urbanistici e i fenomeni delinquenziali, c’è un popolo sofferente che ha ormai trovato un suo malsano equilibrio.
Depretis, dopo il colera e la visita a Napoli con il re, aveva affermato che bisognava “sventrare Napoli” e da questa dichiarazione d’intenti nacque la colossale operazione urbanistica nota come “Risanamento”, che interessò, più vistosamente e incisivamente, il vasto quartiere del porto che, in un fitto e degradato reticolo di vicoli, saliva fino a Via Duomo e da piazza Municipio si estendeva, in diversi tentacoli, sino a Piazza Garibaldi, e poi anche il quartiere di pescatori di Santa Lucia.
Cogliendo a volo la frase a effetto del presidente del consiglio, la Serao, dal colera, dalle polemiche divampate, dai piani di risanamento proposti, sviluppò immediatamente una serie di articoli che già nel 1884 confluirono in volume. Ritornò con altri articoli su questi temi tra il 1902 e il 1904, “con un sentimento più tranquillo ma, ahimé, più sfiduciato, più scettico che un migliore avvenire sociale e civile possa mai essere assicurato al popolo napoletano” e nel 1906 il libro assunse la fisionomia definitiva che conosciamo.
Questa serrata inchiesta giornalistica non è solo un viaggio nell’inferno urbanistico della città di fine Ottocento. È anche un’analisi, partecipe ma lucida e impietosa, dei costumi e nelle miserie delle classi popolari con le loro pratiche e piaghe: il lotto, al quale l’autrice dedica pagine efficaci, l’analfabetismo, la denutrizione, l’usura e la devozione spesso superstiziosa. È questo il popolo napoletano che i borghesi concepivano ancora (e chissà oggi…) come un’altra Napoli fuori della storia e dei principi basilari di umanità, una PLEBE da compatire, sfruttare o blandire.
La Serao affronta di petto la questione, discende nell’osservazione di stili di vita, di miserie, sembra a volte avvicinarsi ai quadri consueti del pittoresco popolare ma le sue pagine, anche patetiche e d’ambiente, sono anzitutto permeate da una reale sintonia con questo popolo e poi si rivelano funzionali a un progetto di ricostruzione della città, volto a creare condizioni vivibili, a partire dalla pulizia delle strade e dall’illuminazione pubblica (vi ricorda qualcosa?). Ma il suo discorso non si ferma all’aspetto urbanistico, chiede sviluppo, lavoro, istruzione.
Non tutto piacque della complessa operazione alla pugnace giornalista, che intervenne come si è detto, circa vent’anni dopo, con altri articoli, per obiettare che l’operazione non era stata condotta fino in fondo e che l’enorme Corso Umberto I (“Il Rettifilo”) appariva come un paravento di palazzi borghesi che nascondeva altri intrichi malsani. Il resto, come è noto, l’hanno fatto poi le bombe americane, “aprendo” definitivamente quella che oggi è l’ampia Via Marina.
La Serao domina la sua materia, nei toni patetici e in quelli di denuncia, e si rivela qui miglior narratrice che nei romanzi e nelle novelle, i suoi bozzetti non sono fine e se stesso, la rappresentazione viene subito ricondotta a un’idea che l’autrice vuole esprimere, la sua scrittura rudemente espressiva e indignata funziona alla perfezione.
Andrebbe letto e discusso nelle scuole della città (visto che ci chiedono di adeguare i programmi ai contesti regionali, in una sorta di giusto, e spero equilibrato, “federalismo dei programmi”). È forse infatti l’unico frutto maturo del verismo napoletano.

L'Autore

Matilde Serao, giornalista e scrittrice, nacque in Grecia, da madre greca, a Patrasso, nel 1856, e morì a Napoli nel 1927.
Dopo la licenza magistrale conseguita a Napoli, fu impiegata nei telegrafi, ma nel contempo iniziò a collaborare a diversi giornali. Dal sodalizio professionale, che fu per un certo periodo anche legame di vita, con Eduardo Scarfoglio, nacquero anche diversi giornali, “Il Corriere di Roma”, “Il Corriere di Napoli”, e poi “Il Mattino”, testata ormai storica in città. Dopo la separazione da Scarfoglio fondò, ancora a Napoli, “Il Giorno”.
Giornalista incisiva, narratrice prolifica e di facile vena, dallo stile spesso corrivo ma dalla grande capacità di tratteggiare personaggi soprattutto delle classi popolari, la Serao ebbe grande popolarità e ha lasciato alcuni romanzi che ben s’inseriscono nel filone del verismo meridionale, tra i quali ricordiamo: “La virtù di Checchina” (1884), “Il romanzo della fanciulla” (1886), Il paese di cuccagna (1890), “la ballerina” (1899), oltre a numerose novelle di varia lunghezza. Nell’ultima fase della sua produzione prevale una tonalità spiritualistico-religiosa, che la induce a comporre volumi di tipo storico-agiografico, come le memorie del viaggio in Terrasanta e “San Gennaro nella leggenda e nella storia” (1909).